Teatro Carlo Felice, Genova

Stagione d’opera e balletto 2006/2007

Le Villi

di Giacomo Puccini

 

Direttore Riccardo Frizza

Anna Fiorenza Cedolins

Riccardo José Cura

 

Drammaturgia visuale Emanuele Genuizzi

 

Interferenze, provocazioni e ripensamenti per una drammaturgia visuale*

Ideare una drammaturgia visuale per un’edizione delle Villi in forma di concerto può rivelarsi un’operazione rischiosa. Impossibile non temere che i segni, le immagini, possano distrarre il pubblico o distoglierlo addirittura dall’ascolto…

La questione del limite è dominante. Stabilire fino a quale punto sia lecito spingersi nel proporre una visualizzazione. Definire la soglia oltre la quale il linguaggio delle immagini rischierebbe di soverchiare quello musicale, fino al punto di disturbarlo, di alterarlo. Di sovrapporsi ad esso come una fastidiosa interferenza. Occorre tenere conto delle diverse sensibilità del pubblico, trovare una misura capace di contenere e accogliere l’immaginazione senza condizionarla eccessivamente. Tessere un soffice tappeto visivo, che la fantasia di ogni singolo spettatore possa percorrere liberamente.

La leggenda all’origine del libretto è molto conosciuta dal punto di vista iconografico, basti pensare a tutte le Giselle… Come sarà la morte di Anna? E la selva oscura? Si vedrà la ridda delle villi forsennate?

L’iconografia è sempre una tentazione. Ma anche un insidioso trabocchetto. Non mi riferisco a quella pucciniana in senso stretto, né a quella teatrale in genere. Mi piacerebbe poter illustrare, senza provocare un assordante incidente sensoriale, la vana attesa di Anna come in un Degas, il suo spegnersi dignitoso e ineluttabile come lo dipingerebbe Munch o lo spaventoso attraversamento della selva oscura con il tratto di James Ensor. Il fantasma di Anna uscito dalla matita di Kubin… Impossibile. Nessuna illustrazione. Nessuna immagine con intento didascalico.

Citare riferimenti iconografici, pur affermando che non si intende farne direttamente uso, rivela che a questi si ha pensato…

Le suggestioni iniziali sono sempre presenti, ma filtrate attraverso la musica e sottoposte ad un radicale trattamento di assorbimento. Il percorso verso l’astrazione porta in sé questa straniante caratteristica: è un avanzare camminando a passi indietro, procedere come a ritroso lungo un processo creativo di progressiva rarefazione, di spoliazione continua, verso uno sfumato indefinito e primordiale. Rimane tuttavia l’essenza delle ispirazioni. Il principio attivo. Nulla più di connotato o riconoscibile. Less is more.

Quasi una diluizione omeopatica.

L’immagine è come un farmakon in senso etimologico. Cedere al decorativismo, all’horror vacui, all’illustrazione, può provocare una tremenda intossicazione. Nelle Villi l’eloquenza della musica è tale che si produrrebbe una overdose. Questo potrebbe rovinare la serata come un’indigestione…

Eppure durante l’intermezzo sinfonico il libretto dà indicazioni molto precise: il corteo funebre di Anna attraversa la scena, balenano i fuochi fatui…

Vorrei lasciare al pubblico la libertà di chiudere gli occhi durante il concerto! Non vivrei questo gesto come un rifiuto, ma come un’adesione – forse un po’ radicale – all’intento del mio lavoro. Altrettanto però vorrei che ad occhi aperti la visione che propongo risultasse in sintonia con le note, come generata dalle note stesse. Quando Puccini interrompe la nostra esperienza in presa diretta dell’azione siamo immersi completamente nella musica. Contrastare il suo invito alla concentrazione costituirebbe una imperdonabile violenza nei confronti del pubblico e un tradimento della partitura. Chiudere gli occhi e vedere con la mente… Inviterò il pubblico a farlo.

Come organizzare lo spazio? Come gestire la presenza fissa sulla scena di coro e orchestra?

Come architetto sono istintivamente portato a pensare in termini di spazio cartesiano e a sviluppare il pensiero visivo a partire dalle tre dimensioni in un continuum. L’assetto da concerto riduce drasticamente lo spazio scenico, costringendo a un ripensamento della prassi convenzionale. Offre però in cambio una straordinaria possibilità: la presenza in primo piano di coro e orchestra, vissuta come opportunità e non come ingombro, diventa un elemento essenziale al compiersi del rito, e paradossalmente si colloca proprio nella direzione dell’astrazione. Determina e ribadisce in ogni istante la presenza simultanea di un qui e di un altrove. Di una dimensione reale e ineludibile, concreta, fatta dal pubblico in sala, dai professori d’orchestra, dagli artisti del coro, dagli strumenti, e di un piano metafisico e ideale di assoluto, idee, emozioni, musica. L’interazione fra questi due piani, non più separati dalla membrana ideale del boccascena, potrà essere emozionante. Come potrà rivelarsi interessante la relazione tra i solisti, o meglio tra i personaggi che essi divengono e la massa presente e aliena al tempo stesso dell’orchestra, invisibile ai loro occhi. E la gradinata del coro, immobile, come nella tragedia greca. Il nucleo di energia che si sprigiona dal direttore al centro di questi tableaux.

E oltre a tutto ciò?

Uno squarcio, o forse un taglio, o un orizzonte, un’atmosfera… il vuoto che contiene ogni cosa, uno spazio fluido, dinamico, in continuo divenire. L’immersione in un colore dominante, cangiante in relazione alle temperature e ai moti dell’anima: l’ocra dorato e sfolgorante della prima scena, annegata in un pulviscolo luminoso quasi privo di ombre, dove tutto è gioia e tutto è festa, e gli “Evviva!” risuonano come stentorei proclami.
Le incitazioni ai giri di valzer come a voler raggiungere l’ebbrezza dello stordimento nella saturazione dei sensi.
Il trascolorare nel pallore di Anna e nel gelo di un presagio.
Il dubbio, l’angoscia che attanaglia, insinuandosi sotto la pelle ormai livida, e che le rassicurazioni più accorate non riescono a cancellare.
L’impietoso bianco e nero che investe con spietato e cinico disincanto una preghiera vana e disarmata, che allontana sempre più i desideri e gli auspici e cede il passo a un fato sordo e inesorabile pronto a compiersi.
Il calare inarrestabile di una tagliola, come una palpebra vinta dal sonno.
Il nero assoluto che è la voragine della totale negazione, ma anche la polla abissale e misteriosa delle infinite possibilità e la tela sconfinata dell’immaginazione.
Il blu petrolio profondissimo, dimora dell’allucinazione e dell’incubo, percorso da bagliori repentini e guizzanti.
E la Natura immobile e schierata, quasi in attesa come in un dipinto di Lorenzo Cardi. O dilatata e fluttuante nella vertigine di Roberto, stravolto dal suo senso di colpa… Forse si vedrà tutto questo, forse no.

Milano, febbraio 2007

 

* Dal programma di sala.